lunedì 8 settembre 2014

L’italiano e il complesso della valigia di cartone.

Leggo tanti articoli che esaltano le case-history di giovani italiani con idee eccellenti che in Italia lanciano le loro start-up e hanno grande successo. Fantastico. Quello che poi mi fa imbestialire è il corollario: "Invece di incitare i giovani alla fuga, raccontiamo questi esempi, esaltiamo i successi di chi resta". Ma è possibile che in Italia si sia ancora fermi al manicheismo autarchico patria-resto del mondo? Possibile che anni di unione Europea, di Schengen, di Erasmus e di libera circolazione della forza lavoro non sia riuscita a scalfire il complesso dell’Italiano che parte mosso dalla disperazione per cercare fortuna all’estero? Che se un italiano parte è necessariamente un cervello in fuga? Sono stanca di leggere articoli di persone che denigrano l’Italia per esaltare qualsivoglia nuovo paese o articoli di persone che dall’Italia non si schiodano e difendono la scelta di restare, come se fossero nuovi partigiani rimasti a combattere chissà quale guerra. Per come la vedo io, emigrata in Danimarca da due anni, la questione è diversa. Tanti italiani hanno orizzonti più ampi. Hanno capito che il limite non sono le Alpi. Hanno quella meravigliosa attitudine di gente d’Europa, gente del mondo, che quando cerca un lavoro, lo cerca senza confini. E a volte lo trova e se ne va. E quando si è all’estero ci si rende conto che si è in tanti ad aver fatto quella scelta, italiani ma anche inglesi, francesi, tedeschi, americani, coreani, kenyoti (e chi più ne ha più ne metta, a scuola dei miei figli ci sono 79 nazionalità) guidati tutti dallo stesso senso dell’opportunità e dell’avventura. Sia ben chiaro, non è obbligatorio partire. Ma è utile guardare lontano, in tutti i sensi. A volte si riesce ad arrivare lontano restando in Italia, a volte le proprie capacità hanno più futuro altrove. A volte, per qualcuno è necessario anche solo ricominciare da zero, in un posto dove nessuno si accorge del suo accento o della sua classe sociale (uno dei grandi vantaggi di vivere all’estero).   Ma perché accanirsi con i presunti fuggitivi? Perché vantarsi di essere “uno di quelli che restano” come se fosse un valore di per sé?  Dei tanti altri stranieri che ho incontrato qui a Copenhagen, nessuno parla di fuga, eppure vivono e lavorano all'estero esattamente come me. Consideriamola un’opportunità, un’avventura, un’esperienza, ma non una fuga. Nonostante tutto, l’Italia non se lo merita.